Dipinti da entrambi i lati
Macchina Inutile 1934
Fotografia di Ada Ardessi
Courtesy Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo, Milano
Abbiamo discusso nelle precedenti schede delle caratteristiche aeree, aleatorie e di leggerezza delle Macchine Inutili. Abbiamo insistito sugli aspetti di installazione e spettacolarità grazie all'uso di luci e la generazione di ombre. Abbiamo evidenziato lo sviluppo continuo di una forma nello spazio e la mutevolezza nel tempo di una struttura che non è più scultura e nemmeno pittura. Abbiamo sottolineato il rapporto armonico di forme e misure dovuto alla programmazione, e ricordato le caratteristiche di produzione seriale con finalità estetiche. Abbiamo dato rilievo al movimento reale degli elementi della macchina mossi dalle minime variazioni ambientali, come le correnti d'aria.
Non abbiamo, invece, dato la necessaria importanza al movimento virtuale, come fatto puramente percettivo che si manifesta nel momento stesso in cui è lo spettatore a spostarsi.
Le Macchine inutili, infatti, possiedono una duplice caratteristica di movimento: uno reale, degli elementi colorati della composizione "pittorica", ed uno apparente, poiché la composizione si modifica in funzione del moto dello spettatore.
Munari stesso ci ricorda questo aspetto progettuale ed estetico: "ritagliai queste forme [...] e le dipinsi dall'altra faccia (quella che nei quadri non si vede mai) in modo diverso così che ruotando nell'aria presentassero combinazione varie". [1]
Nella fotografia di Ada Ardessi che ritrae una Macchina inutile del 1934, appartenente alla collezione della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, si può osservare che tutti gli elementi hanno motivi (cromatici) e forme differenti, contribuendo ad aumentare la suggestione visiva del movimento. Le figure hanno ciascuna almeno due colori per lato.
I motivi grafici non si ripetono identici su entrambi i lati di ciascun elemento, contribuendo in questo modo ad una instabilità nella percezione dell'insieme della composizione.
Tutte queste condizioni concorrono alla realizzazione di un'idea di movimento apparente, determinato dalla relazione che si crea tra l'opera e l'occhio dello spettatore. Lo sviluppo nel corso tempo del mobile viene reso più interessante ed ambiguo grazie alla sovrapposizione tra il movimento reale della macchina e il movimento cromatico percepito dallo spettatore
[1] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
Anche la cornice
Anche la Cornice 1935
Replica in 10 ex. del 1986
Il titolo "Anche la cornice" indirizza la nostra attenzione verso il fatto che la pittura non può rimanere isolata o circoscritta all'interno in un framework, ma va lasciata libera di fuoriuscire, anche concettualmente, dagli schemi e dal perimetro limitante di una cornice. Il titolo è anche un tributo a Balla (per il quale anche ogni minimo tentativo futurista è sempre l'inizio di una nuova arte per i secoli a venire), ma contemporaneamente è uno sforzo, iterato in molti occasioni nel corso della lunga vita artistica di Munari, di superare i limiti affrontandoli con occhi diversi. [1]
Per far ciò l'autore usa semplici espedienti allo scopo di procurare una instabilità percettiva, con accostamenti di forme basilari e colori primari opposti, cercando il superamento di ogni regola legata al supporto (il quadro) o ai materiali utilizzati (la tradizione). In più occasioni Munari critica esplicitamente la declinazione astrattista che continua a mantenere un dualismo obsoleto tra figure in primo piano e sfondo, sul quale le prime giacciono come appoggiate. Questa concezione per l'autore è fortemente ancorata ad un modo di dipingere legato al passato. In altre pitture, che hanno lo stesso titolo e che vengono realizzate sempre nel 1935,[2] le forme astratte sono protagoniste della composizione in modo assolutamente paritetico senza la predominanza di nessuna sulle altre.
Nell'opera riprodotta in questa sezione l'uso di pitture piatte, uniformi, primarie, senza alcuna variazione di tinta che possa implicare anche la minima soggettività espressiva dell'autore, è funzionale ad una "perfezione" di resa grafica.
Nel 1935 siamo solo agli inizi del percorso munariano, il concetto è solo in nuce e la rappresentazione pittorica sembra quasi insufficiente ad esprimerlo, ma è evidente che i confini del quadro sono sempre più incerti, stretti e inadeguati alle riflessioni teoriche sul futuro della pittura.
[1] Marco Meneguzzo, Beppe Finessi (a cura di), Bruno Munari, Silvana Editoriale, 2008
[2] Miroslava Hajek, Luca Zaffarano (a cura di), Bruno Munari. My Futurist Past, Silvana Editoriale, 2012, pag. 40-41
Variazioni cromatiche multistrato
Ora X 1945
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi
Copertina Einaudi 1958
Nel 1945 Munari utilizza una sveglia per creare un'oggetto cinetico fissando dei dischi colorati di materiale plastico trasparente alle lancette dell'orologio. Abbiamo già parlato ampiamente di questa opera in relazione al dinamismo di una composizione cromatica. L'oggetto prende il nome di Ora X ed è de facto il primo prototipo di oggetto cinetico progettato per una tiratura seriale, un'opera che però, per vari motivi, entra in produzione solo nel 1962 per conto dell'azienda milanese di Bruno Danese. Al di là di questo episodio anticipatore, Munari resta comunque uno dei primi artisti a concepire e produrre oggetti d'arte cinetica moltiplicati,[1] realizzati per la prima volta nel 1956 con una piccola serie in 20 esemplari di una Macchina inutile in alluminio.[2]
L'artista, nel produrre un oggetto la cui funzione principale è quella di comunicare un messaggio estetico, deve anche essere in grado di risolvere vari problemi di progettazione e di produzione industriale. Di conseguenza viene spesso da domandarsi se si tratta ancora di oggetti d'arte o di oggetti di un design sperimentale. Ragionevolmente si può concludere che sono, nello stesso tempo, entrambe le cose: ricerca progettuale, sperimentazione e informazione estetica.
Nell'Ora X la funzione cromatica è predominante, fugando ogni dubbio in questione. La variante temporale determina il meccanismo di trasformazione continua dei colori ottenuti dalla sovraimpressione di materiale plastico semi-trasparente a tinte uniforme elementari: blu, giallo, arancio e nero.
In modo del tutto analogo nella progettazione di una copertina per l'editore Einaudi l'alterazione dei colori si ottiene per stratificazione di materiale. In questa opera di graphic design il giallo, fulcro della composizione, si trasforma, ad ogni sovrapposizione di materiale, in giallo scuro, arancio, arancio scuro, rosa, fucsia, viola.
Nel caso della copertina la variazione è solo virtuale, interna alla visione. L'effetto di profondità rievoca la tecnica, usata frequentemente nei suoi famosi Libri Illeggibili,[3] in cui l'effetto di scoperta si ottiene fornendo al lettore la sensazione di attraversare le pagine strappate irregolarmente al centro.
Nel caso della sveglia, invece, il movimento cromatico è reale e l'opera appartiene alla serie di lavori in cui immagini instabili per forma e colore realizzano una percezione cinematica, cinematografica, della composizione.
La visione è il risultato di una fruizione e di una partecipazione del tutto soggettiva, in quanto basata sulla sensibilità di ciascuno.
[1] Frank Popper, L'arte cinetica, Einaudi, Torino, 1970
[2] Rassegna domus, per Natale, in Domus n. 325 dicembre 1956
[3] Bruno Munari, Nella notte buia, Muggiani, Milano, 1956
Stratificazione grafiche
Serigrafia tratta dalla cartella Los Alamos 1958
Copertina Einaudi 1958
Nel gennaio del 1958 la rivista Domus, diretta in quegli anni da Gio Ponti, dedica a Munari la copertina [1] sulla quale due sequenze di immagini ottenute con filtro polarizzante si sviluppano graficamente in verticale, simulando la pellicola di un film, con al centro una sequenza colorata, anch’essa verticale, di quadrati. Le composizioni ottenute dalla sovrapposizione di materie plastiche trasparenti sono intitolate: "composizioni a colori variabili".
Il mese successivo l’artista a Milano presenta una mostra personale presso lo studio degli architetti Mario Brunati, Sandro Mendini e Ferruccio Villa. Il pieghevole di presentazione è un grande foglio trasparente, che una volta ripiegato mostra stratificate ed in trasparenza tutte le informazioni della mostra. Le scritte sono stampate in orizzontale e in verticale, mentre un paio di quadrati completano la composizione. Il risultato finale, che si ottiene per piegatura e sovrapposizione di un foglio lucido e trasparente, ha un look minimalista che rimanda alla pittura di Mondrian, un risultato estetico reso forse ancora più essenziale dall’assenza di ortogonali.
Nel marzo dello stesso anno l’artista partecipa alla rassegna "Edizioni di arte concreta 1948/1958" alla libreria Salto di Milano con i Libri Illeggibili, opere che hanno tra le loro caratteristiche dominanti proprio la creazione di composizioni grafiche grazie ad espedienti come l’uso di pagine tagliate, bucate, forate o trasparenti, che consentono la formazione di immagini complesse proprio grazie alla tecnica della sovraimpressione delle pagine.
Successivamente Munari pubblica per l’officina grafica d’arte Lucini una serie di sei tavole a colori che accompagnano le poesie di Giorgio Soavi, giornalista e curatore della strategia culturale della Olivetti.
Anche in questo caso la tecnica compositiva è frutto della sperimentazione per accumulazione di fogli semitrasparenti colorati, stampati a tinta unita o con strisce di colore. Gli studi realizzati, oggi in collezione privata, sono realizzati grazie ad una stratificazione di pagine il cui spessore, anche materico, è in un certo modo testimone della complessità cromatica della composizione. Il risultato finale assomiglia molto alla texture di certi tessuti, alle trame o ai reticoli di un certo filone pittorico astratto.
In verità per Munari tra una stampa serigrafica ed una pittura ad olio non c’è alcuna differenza sostanziale, cambia la tecnica ma il contenuto della comunicazione visiva rimane inalterato. Ed è quanto avviene nella progettazione grafica per l’editore Einaudi della copertina del libro di Primo Levi. Il lavoro "pittorico" accompagna in un caso le liriche del poeta Giorgio Soavi, nell’altro si trasforma nella veste commerciale di un libro che deve farsi notare tra gli scaffali di una libreria. Il procedimento compositivo genera una tavolozza di colori ottenuti con la tecnica della sintesi additiva. L’autore applica al procedimento tutta la propria sensibilità estetica (che è il risultato di una somma di conoscenze, non una qualità indefinita ed arbitraria) per regalarci un ritmo ed una trama di colori che percepiamo nella sua complessità, attraverso il risultato finale, come somma di strati di colore.
I fogli trasparenti utilizzati da Munari per la realizzazione delle serigrafie Los Alamos, in realtà, mostrano anche altre aspetti metodologici molto interessanti. Le composizioni astratte sono il risultato di una sovrapposizione di texture di base (una specie di alfabeto pittorico astratto di base).
E’ sufficiente cambiare l’ordine delle sequenze per ottenere composizioni profondamente differenti. In buona sostanza Munari definisce un metodo per ottenere, in un attimo, pitture astratte che i suoi colleghi realizzano, con notevole spreco di risorse, in molto tempo.
[1] Domus, n. 338 gennaio 1958
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Caratteri tipografici in libertà
Bozzetto per il libro Le Macchine di Munari 1941
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz - Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi
Bozzetto per copertina di libro 1948
Coll. priv.
Nel 1942 Munari pubblica per l'editore Einaudi di Torino un libro per ragazzi dedicato a delle macchine umoristiche, intitolato "Le macchine di Munari", nel quale vengono illustrati, con disegni e brevi spiegazioni, dei meccanismi ironicamente assurdi come, ad esempio, la "Macchina per addomesticare le sveglie", il "Ventilatore ad ali battenti" e il "Motore a lucertola per tartarughe stanche". Disegni simili in precedenza erano comparsi sull'"Almanacco letterario Bompiani" del 1933 [1] e sulla rivista umoristica illustrata "Il Settebello" ("Apparecchio clandestino per vincere la malinconia") del 1938. [2] Tali inutili meccanismi hanno trovato, in tempi più recenti, una rinnovata attualità nelle improbabili ed umoristiche reazioni a catena filmate dagli artisti svizzeri Peter Fischli e David Weiss con il lavoro "The Way Things Go" (1986-87). Verosimilmente per il duo artistico svizzero il punto di partenza è la macchina irrazionale ed anarchica di Tinguely. Va poi ricordato però, in una specie di gioco a ritroso, il debito teorico e poetico di Tinguely verso l'artista italiano, al punto da spingerlo a presentarsi un giorno (nei primi anni cinquanta) presso lo studio di Munari con il "Manifesto del Macchinismo" in mano.[3]
Il progetto grafico del libro sulle Macchine per l'editore Einaudi prevede un dorso nero che avvolge la copertina a sfondo rosso, creando una linea spessa di contrasto (nero contro rosso) sul lato sinistro. In primo piano sulla copertina cartonata troviamo il titolo e al centro un collage simile nello stile a quello dei meccanismi contenuti nel libro. Il titolo ha un aspetto allegro ed è formato con un collage di lettere ritagliate dalle riviste. La scelta di un uso creativo dei caratteri, richiamando le invenzioni tipografiche in libertà del fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, rimanda però, in modo certamente raffinato, anche alle ingenuità delle composizioni infantili. Le lettere bianche su sfondo nero (e viceversa) contrastano con il colore rosso dello sfondo e con il nero del lato sinistro. La forma del libro è rettangolare e le dimensioni sono standard, cosa che non piace per nulla all'autore che invece insiste con l'editore per realizzare un formato rettangolare, inusuale all'epoca, lungo e stretto di cm 12 x 34.[4]
Ed è proprio sulla base di questo formato che Munari realizza il progetto e la grafica della copertina (riprodotta sopra) componendola sulla copertina di un taccuino per appunti. Su questo quaderno di appunti grafici, nel formato da libro contabile, Munari annota, negli anni '40, molti disegni di vario tipo, progetti, aforismi, appunti visivi ed alcuni esempi di impaginazione delle sue macchine umoristiche, adattate naturalmente al formato lungo della pagina.[5]
Per rimanere sul discorso del formato allungato va sottolineato che esso verrà poi usato nel 1959 per il libro, pubblicato dallo stampatore Muggiani di Milano, dedicato alle forchette cosiddette "parlanti" perché modellate in modo che i denti svolgano la funzione gestuale delle dita di una mano.
Il progetto grafico originale è assai diverso da quello usato in via definitiva per Einaudi. Il collage tipografico riempie completamente la pagina, questa volta a sfondo nero. Tutta la composizione è centrata sul contrasto di colore tra lo sfondo del ritaglio di ciascun carattere e lo sfondo nero di base. Le lettere sono di colore rosso su sfondo bianco, o bianche su sfondo nero in modo da confondersi con il cartoncino di base, e, ancora, blu su sfondo bianco o bianche su sfondo blu. Blu e bianco giocano in contrasto con il nero, alcuni elementi di colore arancione e rosso spezzano il ritmo della composizione. Sembra quasi che una "pioggia" disordinata benché leggibile di caratteri occupi l'intera copertina lungo l'asse verticale. La varietà di forme e di caratteri non sminuisce il valore estetico del risultato finale, che esprime una sua armonia pur nella libertà delle forme e della collocazione dei caratteri nello spazio della pagina.
Lo sperimentalismo tipografico del futurismo viene graficamente rielaborato secondo contrasti percettivi tra colori basilari (rosso-nero, bianco-nero, blu-bianco, ecc.). Le soluzioni rimandano all'"Abecedario" pubblicato nel 1942 sempre per Einaudi dove in copertina troviamo disposti, in forma armonica rispetto alla forma quadrata, nove cerchi. E ancora al libro prescolastico "Alfabetiere" del 1960 e persino al manifesto Campari realizzato nel 1965, attualmente presente nella collezione del MoMa di New York, che affisso sui muri della prima linea metropolitana di Milano, durante i giorni di apertura, diede un tocco di colore, di allegria e di grazia estetica alle grigie gallerie sotterranee. Tutte queste composizioni anticipano molte sperimentazioni più recenti, in particolare quelle di certi grafici della scuola inglese che hanno abbondantemente attinto al futurismo (si pensi a Jamie Reid, autore delle copertine dei dischi dei Sex Pistols, o a Peter Saville, la cui fonte di ispirazione è rintracciabile in Depero, che ha curato l'immagine globale dell'etichetta indipendente Factory di Manchester).
La Lettura nel 1937, un testo didattico costruito attorno a diversi esempi pratici di progettazione, come un biglietto del tram, una pagina di "R", esperimenti di impaginazioni simmetriche o con sviluppo radiale dal centro. "Essendo la scrittura una delle più grandi scoperte dell'uomo, la tipografia intesa come arte della scrittura viene ad assumere un importantissimo ufficio nella educazione del gusto, grazie alla sua enorme diffusione, che, a partire dal giornale quotidiano, dalle riviste, dai manifesti murali, dai cataloghi, da tutti gli stampati delle banche e dello Stato, penetra fino nelle nostre tasche per mezzo del biglietto da visita, della carta da lettera, dei documenti, del biglietto del tranvai."[6]
Anche nel collage preparatorio per una copertina di libro del 1948 ("Better Day's") il fondo è nero, la composizione è fortemente asimmetrica, molte righe bianche di vario spessore, in contrasto con il fondo, sono allineate sul bordo di destra. Vi è una sola scritta di colore rosso (verosimilmente il titolo del libro) che si staglia sulla composizione in bianco e nero.
L'autore non nasconde, come ha avuto modo di teorizzare in molte occasioni, che tra le sue intenzioni fondanti, nella progettazione di una copertina per un libro, c'è anche il compito di migliorare il gusto estetico del pubblico. Grazie alla enorme diffusione quotidiana di libri, riviste, periodici, manifesti, stampati di vario genere, fino al biglietto del tram, il vasto pubblico può essere stimolato ed abituato alle proporzioni, al ritmo, all'armonia.
Proprio come avviene nel campo dell'arte con una composizione pittorica.
[1] Almanacco letterario Bompiani, Bompiani, Milano 1932
[2] Il Settebello, settimanale umoristico illustrato, novembre 1938, Roma
[3] Bollettino Movimento Arte Concreta n. 10, Milano, 1952
[4] Giulio Einaudi, Con la casa editrice Einaudi, in Munaria. Abitare festeggia i 90 anni di Bruno Munari, Inserto redazionale di Abitare n. 336 ottobre 1997
[5] Taccuino anni '40, oggi nella Collezione Bruno Munari della Fondazione Jacqueline Vodoz – Bruno Danese, Milano
[6] Bruno Munari, Tipografia, in La Lettura, Numero 5, Maggio 1937, Milano
Oltre i limiti della leggibilità
Collage 1963
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi
In "Arte come mestiere",[1] nel capitolo "La forma delle parole" Munari osserva come la parola abbia una forma globale, un aspetto grafico, che va analizzato nel suo complesso per capire tutte le possibilità comunicative, e per capire come sfruttare adeguatamente queste proprietà ai fini di trasmettere un dato messaggio. E così descrive un facile esercizio grafico che chiunque può ripetere in casa secondo il criterio learning by doing, come ad esempio ritagliare delle scritte da alcune riviste e tagliarle in senso orizzontale, a metà carattere lungo la linea di lettura. A questo punto le due parti della stessa scritta vanno sovrapposte creando delle forme nuove che possono condurre anche all'annullamento della leggibilità della frase stessa, il significato si perde, resta il significante con le sue caratteristiche estetiche.
Tra la leggibilità iniziale ed una totale illeggibilità, a causa di un eccesso di sovrapposizione, in mezzo ci sono molte gradazioni che mantengono, per quanto alterata, la funzione comunicativa. E allora la domanda che si pone Munari e che ritorna frequentemente nella sua metodologia sperimentale è: fino a che punto ci si può spingere? Quanto posso togliere ad una immagine affinché la parola mantenga la sua funzione comunicativa? E ancora, oltrepassato il punto di non ritorno, quali sono i messaggi estetici (non più letterali) che la composizione assume?
Munari applica questo criterio sperimentale anche alla leggibilità di un marchio come quello di Campari nel famoso manifesto. Il marchio viene alterato e deformato cercando in sostanza il limite della leggibilità.
Lo stesso procedimento Munari lo applica alla progettazione di un alfabeto (che viene brevettato) dove l'obiettivo è togliere ad ogni lettera il maggior numero di elementi costituenti conservandone la funzione, ovvero la riconoscibilità. Per provare, in modo concreto, la validità delle sue ricerche Munari si spedisce delle cartoline, utilizzando proprio questo alfabeto minimale nella scrittura dell'indirizzo, al fine di verificare se il sistema postale (e i postini) sono in grado di leggere il destinatario e di consegnare il messaggio.
Va inoltre ricordato che quasi tutto il lavoro sperimentale di Munari è basato sulla convinzione che togliere è meglio che aggiungere. L'autore ama citare frequentemente una massima orientale che afferma che quando l'idea è presente non occorre aggiungere altro. Munari rileva che molta pittura figurativa tradizionale cinese o giapponese è basata proprio sui principi di dell'essenzialità. Naturalmente Munari è anche conscio del fatto che semplificare (togliere) è decisamente più difficile che complicare (aggiungere) e che la semplicità spesso non è apprezzata perché il tanto lavoro fatto per eliminare il superfluo non è immediatamente visibile, mentre è invece sotto gli occhi di tutti il tanto e superfluo lavoro necessario a "impreziosire" o complicare.
L'autore consolida gli esperimenti sulla leggibilità degli alfabeti e sulle costanti rintracciabili negli alfabeti di tutto il mondo presentando un ciclo di opere d'arte chiamate Scritture Illeggibili (costruite a partire dal 1947, ma esposte in modo organico per la prima volta in una personale alla galleria Sincron di Brescia nel 1973), che sono appunto tali in quanto hanno solo un valore informativo estetico e non comunicativo.
[1] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
Libri senza testo
Libro Illeggibile Bianco e Rosso anni '50
Coll. priv.
Nel febbraio del 1950 Munari presenta alla Libreria Salto di Milano specializzata in cataloghi d'arte d'importazione, i suoi ormai notissimi Libri illeggibili. Questi libri sono senza testo, non esistono parole, ma solo immagini, comunicano storie visive per mezzo di linee, colori, fogli strappati, tagliati, fogli trasparenti, carte veline, fili di cotone o altri inserti. I primi esemplari vengono realizzati come pezzi unici, la prima serie in 20 copie realizzate a mano è quella del libro numero 12 del 1951. Tra gli esemplari in mostra alla libreria Salto ricordiamo: Primo Libro, del 1949; Punto bianco; Giallo nero bianco si e no; Giallo blu rosso contro grigio e nero; Due in uno; Triste storia con qualche momento allegro.
Scrive Alberto Mondadori nel foglio di presentazione della mostra: "Questi libri illeggibili sono i primi di un nuovo linguaggio che ha strette parentele con il cinema e la musica e, credo, potranno diventare un giorno un «genere», così come a fianco della scultura, le «macchine inutili»".
Tra le edizioni più note dei Libri Illeggibili ne ricordiamo in particolare tre: il Libro bianco e rosso (anni '50) pubblicato dall'editore olandese Steendrukkerij de Jong; il Libro bianco e nero del 1965 pubblicato dai Grandi Magazzini Isetan di Tokyo; il Libro Illeggibile N.Y. N.1 del 1967 pubblicato dal Museum of Modern Art di New York. Il primo dei tre è quello riprodotto con un paio di immagini in questa scheda ed è realizzato in cartoncino bianco e rosso, come dichiara appunto il titolo. Le pagine hanno tagli ed uno schema formale complesso che consente al lettore, sfogliando il libro, di interagire con la struttura delle pagine e di realizzare differenti composizioni in bianco e rosso, secondo il proprio gusto estetico personale. La tiratura è di 2000 copie e la collana dell'editore inizia nel 1953.
Munari crea delle regole compositive che si concretizzano attraverso la forma delle pagine e il taglio della carta, ma queste regole non generano un'opera finita, spetta al lettore costruire la propria sequenza, il proprio componimento. Grazie all'espediente delle pagine sagomate non vi è un unico modo di procedere nella lettura, sfogliando le pagine al contrario è possibile determinare l'apparizione di improvvise zone di colore. L'opera non va quindi letta sequenzialmente nel senso tradizionale della lettura, come un normale libro, ma va usata interagendo in libertà con la sua struttura formale, scoprendo di volta in volta le possibilità offerte. Non vi è nulla di prestabilito, il rosso, il bianco e la struttura delle pagine sono i protagonisti assoluti di un libro che nel paradosso diventa illeggibile.
Le strutture minimali che si possono ottenere richiamano alla mente certe pitture geometriche ed essenziali del movimento olandese De Stijl, fondato da Piet Mondrian e Theo Van Doesburg, dominate da figure geometriche rettangolari e colori primari, ma anche certi tagli asimmetrici tipici della cultura visiva giapponese. In particolare il libro preso in esame ha delle attinenze con le ricerche percettive che stanno alla base dei "negativi-positivi". "Le forme e i colori sono quindi usati come personaggi che assumono una vita intima giocando o lottando fra di loro."[1]
Munari espone questi libri a New York nel negozio Italian Book and Craft nel 1953 e poi al MoMA nel 1955. Ne dà notizia il New York Times affermando con una certa sorpresa: "Potrebbero sembrare delle sciocchezze, ma si tratta di oggetti attraenti...".[2] E appare ancora più calzante l'osservazione apparsa sulla rivista Domus che commenta la mostra al MoMa curata da Costantine Mildred, una figura curatoriale fortemente innovatrice: "[Munari, ndt] più che risolvere una superficie da guardare, inventa l'intero oggetto da guardare, e il modo di guardare".[3]
Con i libri illeggibili al lettore è offerta non solo una serie di composizioni grafiche astratte (che per il valore comunicativo potremmo considerare delle composizioni pittoriche a tutti gli effetti), ma anche lo strumento per poterle creare attraverso un approccio che miscela gioco, meraviglia, partecipazione e conoscenza.
[1] Libri Illeggibili di Bruno Munari, in Mostre d'arte, AZ arte d'oggi, anno II n.2 febbraio 1950, Milano
[2] New York Times, 23 maggio 1953
[3] Piccola rassegna di Munari, Domus n. 317, aprile 1956, Milano
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Pensiero negativo-positivo
parte 1
Negativo-positivo 1978
Coll. priv.
I Negativi-positivi sono probabilmente tra le opere più note di Munari. Vengono progettati verso la fine degli anni '40 quando l'artista ha già lasciato dietro di sé una storia importante raggiungendo, proprio in quegli anni, l'apice della sua intensa attività creativa. Dalle posizioni teoriche del movimento futurista prende in eredità la sfida di realizzare complessi plastici (sculture mobili) in movimento, che si concretizzano nelle forme cinetiche delle Macchine inutili e poi con l'installazione del Concavo-convesso. E' tra i primi ad aprire a Milano uno studio di progettazione grafica, illustra libri, riviste, disegna manifesti pubblicitari. Dopo una lunga parentesi astrattista, per molti versi propedeutica al percorso che lo conduce alla smaterializzazione della pittura, giunge alla pittura proiettata, dove grazie alle Proiezioni di luce, con e senza filtro polarizzante, crea ambienti luminosi di forte impatto visivo. Negli stessi anni è protagonista e fondatore del Movimento Arte Concreta, recupera il pensiero futurista, seppure in un contesto ironico, con il "Manifesto del Macchinismo", ma allo stesso tempo lo prende sul serio e realizza le paradossali Macchine aritmiche. Infine, inizia ad assumere posizioni teoriche che sostengono in modo sempre più convincente l'importanza di un rinnovato ruolo dell'artista, che deve intervenire in ogni aspetto della vita quotidiana, spesso incrociando le moderne esigenze di una produzione industriale avanzata.
Proprio in questa fase di massima intensità creativa, e proprio mentre gli astrattisti devono ancora lottare quotidianamente per l'affermazione delle loro sperimentazioni estetiche, Munari progetta delle pitture in cui il vero obiettivo è il superamento dei risultati raggiunti qualche decennio prima dall'astrattista Piet Mondrian: "Quando nel passato ho lavorato ai negativi-positivi il mio problema era uscire da Mondrian: ho ancora le sue ortogonali dentro di me... A furia di semplificare, di arrivare ai colori primari, Mondrian ha occupato lo spazio della tela in modo asimmetrico al fine di trovare un equilibrio. Era difficile uscire da questa gabbia. Attraverso i miei negativi-positivi ho tentato di arrivare ad un altro tipo di equilibrio. E credo di esserci riuscito".[1]
Ed ancora in risposta ad una domanda del critico Arturo Carlo Quintavalle sulle frequentazioni di altri artisti durante gli anni trenta risponde: "Prampolini mi mostrò anche delle opere di Mondrian e fui molto colpito dalla essenzialità e dal modo di occupare lo spazio di questo artista. Questa conoscenza mi seguirà poi per sempre e, decisamente, determinò molte operazioni relative a miei lavori a due o più dimensioni".[2]
Con l'astrattismo la pittura abbandona completamente la necessità di fornire al dipinto un soggetto. Ma il vero cambio di paradigma si ha con l'astrattismo cosiddetto "concreto" che si concentra, libero da ogni vincolo narrativo (realista, surrealista, simbolico, espressionista), esclusivamente su immagini concrete e autonome (ovvero senza la minima relazione con il mondo reale), caratterizzate da forma e colore, ritmi e accordi.
Scrive Munari su Domus nel settembre del 1952: "Un azzurro non è un cielo, un verde non è un prato, anche se dentro di noi questi colori risvegliano sensazioni di cieli e di prati. L'opera d'arte concreta non è più nemmeno definibile nelle categorie pittura, scultura ecc.: è un oggetto che si può appendere al muro o al soffitto, o appoggiare per terra. Qualche volta può assomigliare a un quadro o a una scultura (nel senso moderno) ma non ha niente in comune con questi".[3]
Sempre nel medesimo articolo viene fornita una breve spiegazione dei "negativi-positivi": "Questi oggetti a superficie piana dipinta si chiamano negativi-positivi perché ognuna delle parti che li compongono è autonoma, come i pezzi che compongono un motore; non esiste una parte che fa da fondo alle altre ma tutte insieme compongono l'oggetto. Se consideriamo invece una pittura astratta o narrativa vediamo che c'è un fondo colorato sul quale è sistemata la composizione".
L'osservazione principale è che con i negativi-positivi ogni forma della pittura, ogni parte della composizione, sta in primo piano o sullo sfondo a seconda della percezione di chi guarda.
In buona sostanza nei negativi-positivi la composizione ha una instabilità percettiva, ottenuta da come viene suddiviso il piano. Potremmo concludere che il piano viene partizionato dalle line tracciate, causando l'annullamento del fondo rispetto alle figure in primo piano.
L'assenza di un fondo è fondamentale per ottenere una parità tra le forme disegnate. Munari fa osservare che una linea in un disegno solitamente svolge la funzione di contorno, di bordo, di perimetro di una forma. Essendo il limite estremo di una forma la linea disegna sostanzialmente verso l'interno. Ad esempio, disegnando una pera su un foglio bianco con un semplice tratto la linea raffigura la forma del frutto, che è definita dallo spazio interno delimitato dalla linea stessa. All'esterno della linea abbiamo il fondo (ad esempio il tavolo dove la pera è stata appoggiata). Se invece si traccia una linea che divide un foglio bianco in due parti, allora la linea è solo un confine tra due parti, e in pratica essa disegna da entrambe le parti. Nei Negativi-positivi viene tracciata proprio una linea che, seguendo alcuni rapporti armonici, divide lo spazio in modo da creare un incastro di forme complementari.
[1] Michele Bonuomo, Dialogo con Bruno Munari, Costruttore di forme, in Munari scultore, Edizioni Morra, Napoli, 1990
[2] Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Bruno Munari,
CSAC Università di Parma, Quaderno N. 45
Feltrinelli 1979
[3] Bruno Munari, I Negativi positivi, Domus n. 273, settembre 1952, Milano
Pensiero negativo-positivo
parte 2
Negativo-positivo 1964
Coll. priv.
Nei Negativi-positivi la linea è un segno di confine, una divisoria tra due forme equivalenti. Il risultato è un effetto di instabilità percettiva nello spazio ottico, che coinvolge lo spettatore e lo rende partecipe del fatto che non esiste distinzione tra foreground e background.
Con la pittura concreta si realizza una frattura rispetto alle pitture astratte del passato che spesso, per parafrasare Munari, si rivelano essere delle nature morte di forme astratte, realizzate con gli strumenti (tecnicamente obsoleti) della vecchia pittura. Invece, in queste nuove opere non c'è più alcuna sensazione di profondità, di espressione, le tinte sono piatte, potrebbero essere prodotte industrialmente e il negativo-positivo potrebbe essere "letto" come una architettura di forme-colori.
Il negativo-positivo è concettualmente più un progetto (un disegno) che una pittura, è un concetto che va al di là del limite tracciato da Mondrian con la sua lezione di essenzialità minimalista.
I negativi-positivi sono elaborati nella forma curva a partire dal 1940, le prime realizzazioni sono degli anni 1948-1949. Uno dei primi negativi-positivi viene esposto a Parigi nel 1951 ma la prima mostra viene allestita alla Galleria Bergamini di Milano nel marzo del 1952. Un negativo-positivo viene utilizzato per la copertina del Bollettino Arte Concreta n.5 del 20 marzo 1952.
Negli anni cinquanta, al pari di tutti gli altri astrattisti, soffrendo l'ostilità di un mercato avverso (incidentalmente va ricordato che sono di moda i realismi, l'arte informale, l'arte gestuale), Munari non ha committenti per realizzare tutti i negativi positivi progettati. Di conseguenza egli dà forma alle proprie sperimentazioni visive attraverso disegni preparatori su carta. Per questo motivo è frequente trovare in questi tipo di lavori (come avviene anche con le Macchine inutili) una doppia datazione, necessaria a documentare sia l'anno di progettazione della composizione, sia l'anno della sua effettiva realizzazione. Molti negativi-positivi vengono infatti portati a termine negli anni '80 e '90, quando cresce l'interesse dei galleristi e dei collezionisti, in particolare dopo la grande mostra antologica di Palazzo Reale a Milano del 1986 che spinge tutta la stampa nazionale a parlare diffusamente della sua poliedrica attività.
Sulla rivista Domus, nel settembre del 1955, in polemica con la definizione di negativo-positivo ripresa indebitamente a Parigi nel famoso "Manifesto Giallo" dal pittore Victor Vasarely, Munari spiega, attraverso un dialogo con un interlocutore immaginario dal cognome impronunciabile, come l'idea fondante di questo tipo di ricerca sia rintracciabile nei diffusi dualismi presenti in natura, nella cultura, nei comportamenti più comuni, in alcuni meccansimi percettivi, nell'architettura: "Yang è la forza positiva: è maschile, è il calore, la durezza, la fermezza, la luce, il sole, il fuoco, il rosso, la base di una collina, la sorgente di un fiume. Yin è il principio negativo: è femminile, è il misterioso, il soffice, l'umido, il segreto, lo scuro, l'evanescente, il torbido e l'inattivo, è l'ombra nord di una collina, è la foce di un fiume. Yang e Yin sono presenti in tutte le cose, anche nel signor Pwszzk (che è un po' come noi). Anche lui è allegro e triste, buono e cattivo, ha caldo e ha freddo, dorme ed è sveglio, lavora e si riposa. Non è certo sempre così come lo vediamo nel suo ritratto, anche lui è pieno di negativi – positivi. Ma che cosa lo mantiene in vita? E' l'equilibrio delle forze opposte: la fatica alternata al riposo, la luce al buio, il si al no. Nella sua retina un eccesso di luce rossa provoca immagini verdi. Anche il signor Pwszzk è una unità dinamica generata dal dualismo degli opposti. Nel campo dell'arte l'unità dinamica crea degli oggetti a reazione psicologica. Una buona architettura è una unità dinamica generata dai pieni e dai vuoti perfettamente coerenti e reciprocamente legati"
I primi Negativi-positivi (definiti con un gioco di parole "quadri quadri", ovvero quadri quadrati) sono limitati alla superficie della tavola. Successivamente Munari passa ai negativi-positivi sagomati dove il colore della parete o dell'ambiente entra a far parte della composizione stessa.
Munari realizza anche Negativi-positivi a tre dimensioni, grazie ad un foglio di lamiera tagliata e piegata in modo da creare un volume-scultura in cui i pieni ed i vuoti creano forme negative-positive.
L'artista costruisce infine Negativi-positivi motorizzati. In questo caso le forme in movimento generano un rapporto spazio-temporale dinamico tra gli elementi.
Con la diffusione delle vernici industriali dei colori acrilici, inalterabili e indeformabili, questa pittura a tinte piatte trova la tecnologia più adatta per far scomparire del tutto ogni vibrazione non necessaria di colore.
Una molteplicità di immagini
Due momenti della scatola luminosa Polariscop 1967
Coll.priv.
Fotografie di Pierangelo Parimbelli
Concludiamo il tema della percezione, ritornando con qualche riflessione alle pitture polarizzate. Ne abbiamo già parlato all'interno della sezione "Dipingere con la luce". Qualche valutazione finale è però utile a sottolineare l'importanza assoluta, nel panorama artistico internazionale degli anni '50, di questo tipo di ricerca, ancora oggi la più sottostimata dell'intero percorso munariano.
Questa ricerca nasce dall'esplorazione delle possibilità offerte da un materiale tecnologicamente innovativo, quale risulta essere il filtro Polaroid. Si tratta di lamine trasparenti che hanno la caratteristica di filtrare alcune componenti dello spettro luminoso in base al grado di incidenza della luce. Munari studia dunque a fondo questo materiale per identificare le sue proprietà caratteristiche e per capire come tale prodotto industriale possa essere impiegato nella comunicazione visiva e, in ultimo, con quali risultati estetici.
La grande novità consiste nello scoprire come del materiale trasparente incolore posto tra due lastre di polaroid - ad esempio pezzetti di plastica, cellophane, nastro adesivo - possa assumere una gamma variabile di colori producendo pitture cangianti, caleidoscopiche.
Ma procediamo con ordine. L'effetto del filtro Polaroid diventa visible grazie al materiale incolore inserito tra un sandwich di filtri. In breve, grazie al movimento rotatorio della lastra polaroid più vicina all'osservatore si determina un movimento virtuale della composizione creata dall'artista.
Alcune di queste scatole luminose denominate Polariscop hanno un solo filtro polaroid sul fondo ed un interrutore a lato per accendere una luce al neon posta all'interno dell'opera. La composizione, realizzata con il materiale fissato sul fondo costituito appunto da un lastra di polaroid - appare proprio come nella figura in alto, incolore ed esteticamente poco attraente. Allo spettatore viene poi fornito un disco– il secondo filtro polaroid – suggerendo di portarlo davanti agli occhi e di ruotarlo a piacere mentre si osserva la composizione. La meraviglia si rivela spesso improvvisa in tante espressioni facciali e verbali che non lasciano dubbi sulla spettacolarità dell'esperienza.
In questo semplice esperimento sono racchiuse, a ben vedere, due caratteristiche cruciali del modo di intendere l'arte e la sua utilità sociale. Da una parte la sorpresa e la spettacolarità agiscono come leva fortissima al fine di avvicinare il pubblico alla poetica di un artista fortemente innovativo e non tradizionale. Dall'altra parte la composizione pittorica, fatta con materiale povero, nasce dall'azione dello spettatore stesso che è coinvolto operativamente nel processo di formazione dell'immagine. All'artista viene assegnato il compito di creare un framework, uno spazio di lavoro e di regole ben definite (un certo materiale, una data composizione, regole di utilizzo), allo spettatore invece è assegnato il compito di creare a piacimento, per pura soddisfazione estetica, una pittura che si adatta alla propria sensibilità, senza forzature o imposizioni. Ruotando il filtro più esterno è infatti possibile, nei 360 gradi di un giro completo, ottenere innumerevoli sfumature dalla scomposizione della luce che attraversa il materiale plastico incolore ed i due strati di filtro polarizzante del sandwich.
C'è poi un aspetto di metodo scientifico e procedurale che non può essere sottovalutato e che esemplifica, in modo chiaro, il proficuo, e allo stesso tempo difficile, rapporto tra arte e scienza. Munari arriva ad una scoperta estetica dopo una lunga sperimentazione nella quale i procedimenti ed i materiali vengono classificati. Il processo è ben descritto,[1] quindi verificabile, ripetibile, potremmo dire anche falsificabile.
Munari non è mai stato, come giustamente fa osservare Gillo Dorfles,[2] un pittore nel senso più tradizionale. Lo è sempre stato a modo suo, attraverso metodologie ed approcci inusuali, innovativi, aperti alla tecnologia, alle novità. Le "pitture" così create appartengono a quel filone di ricerca dell'arte cinetica che indaga la possibilità di creare immagini in purezza con la scomposizione della luce.
L'instabilità dell'immagine non è imposta da un motore. Vi sono alcuni Polariscop in cui la rotazione del filtro esterno è motorizzata, ma la soluzione automatica è ritenuta limitante ed incoerente - e per questo motivo ben presto abbandonata - rispetto ad un pensiero filosofico, comportamentale ed estetico che, attingendo alla cultura classica orientale, sosteneva una "azione senza imposizione".
L'instabilità nella formazione di una immagine è anche un meccanismo, una stratagemma per dare forma concreta ad un pensiero estetico che in Munari è sempre stato attento alla mutevolezza delle forme percepite. Esso ci offre persino l'occasione di riflettere, in fondo iterando quanto già sostenuto dal futurismo all'inizio del secolo, sulla forma stessa del mondo, un mondo dinamico, in costante evoluzione, che può pertanto essere rappresentato e compreso solo attraverso una poetica messa in scena di questa stessa trasformazione continua.
La pittura non è più una immagine, ma una molteplicità di immagini, non più immodificabili, come accade nella pittura di Balla o nelle fotografie di Bragaglia, ma dinamiche ed evanescenti.
Se la realtà non riposa, per parafrasare il futurista Boccioni, la pittura, uscendo dalla cornice di un quadro, assume le forme di una creazione luminosa, diventa una sollecitazione visiva e mentale, un processo conoscitivo aperto e coinvolgente.
[1] Bruno Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
[2] Gillo Dorfles, Una estrema celebrazione per l'Arte Cinetica, in Gillo Dorlfes, Inviato alla Biennale, Scheiwiller, Milano, 2010
Testi: Luca Zaffarano, 2015 - 2016
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