Il dinamismo di una forma in
movimento
Macchina Inutile 1947
replica in 90 ex. del 1995
Munari entra a far parte del movimento futurista all’età di 19 anni, esponendo fin da subito nelle mostre collettive in Italia e in Europa. Per un quindicennio, dalla fine degli anni ’20 fino ai primi anni ’40, la sua attività compositiva prende forma percorrendo il solco tracciato dalle riflessioni che il movimento futurista va dibattendo in quegli anni. All’interno di questo contesto egli però mostra una matura autonomia di linguaggio ed anche una certa autorevolezza. Tale ruolo viene notato ed anche sostenuto pubblicamente da Filippo Tommaso Marinetti nella introduzione al catalogo della mostra Trentatrè futuristi che si tiene alla galleria Pesaro di Milano nel 1929.[1]
Nel famoso manifesto della Ricostruzione futurista del 1915 i pittori Balla e Depero dichiarano: Daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile. Troveremo gli elementi astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo assieme, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto.
Si sottolinea, pertanto, la necessità di creare forme dinamiche, immateriali, evanescenti, impercettibili. Lo stesso tema è presente e costante in Munari durante tutto l’arco della sua attività.
Riportiamo un breve estratto del manifesto di Balla e Depero in cui la Costruzione Materiale del Complesso Plastico (cioè di una forma d’arte sviluppata nello spazio) viene definita attraverso la realizzazione di:
ROTAZIONI
1. Complessi plastici che girano su un perno (orizzontale, verticale, obliquo).
2. Complessi plastici che girano su più perni: a) in sensi uguali, con velocità varie, b) in sensi contrari; c) in sensi uguali e contrari.
SCOMPOSIZIONI
3. Complessi plastici che si scompongono: a) a volumi; b) a strati, c) a trasformazioni successive (in forma di coni, piramidi, sfere, ecc.).
4. Complessi plastici che si scompongono, parlano, rumoreggiano, suonano simultaneamente.
MIRACOLO MAGIA
5. Complessi plastici che appaiono e scompaiono: a) lentamente, b) a scatti ripetuti (a scala); c) a scoppi improvvisi [2]
Le Macchine Inutili sono tra le realizzazioni più compiute, nell’alveo del movimento futurista, degli intenti teorici espressi nel famoso manifesto di Balla e Depero, che può essere considerato il vero big-bang della poetica e dell’estetica di Bruno Munari.
Munari, infatti, crea delle macchine da appendere al soffitto composte da elementi di materiali leggerissimi, liberi di muoversi nello spazio senza vincoli tra loro. Il concetto di leva fisica e di macchina elementare viene impiegato per fornire un equilibrio programmato ad una composizione astratta che per paradosso - o per contrappeso inventivo - si muove invece casualmente, sollecitata anche dalla più debole corrente d’aria.
Le Macchine Inutili non hanno solo la funzione innovativa di far "fluttuare" la pittura nello spazio, ma hanno anche il compito di creare un ambiente, un riparo per lo spirito, affaticato da tante macchine che riempiono in modo utilissimo la vita moderna; un riparo in cui trovare conforto attraverso la poesia del farsi e del disfarsi dei disegni creati attraverso gli elementi della macchina.
La Macchina Inutile è, pertanto, un’opera che cerca di volgere l’attenzione dello spettatore verso la percezione di una forma instabile, attraverso una trasformazione dinamica di una forma. Ciò accade grazie ad una composizione sempre variabile, mai ripetuta, di forme dirette e di forme derivate, come le ombre, ottenute illuminando gli elementi della macchina (ma questo è un tema specifico che analizzeremo nella successiva sezione Spazio e Ambiente).
Nelle due fotografie che abbiamo scelto l’immagine tende ad esaltare la caratteristica del movimento e della forma fluida che ne deriva. Ogni singolo elemento della macchina è in grado di generare volumi virtuali e l’immagine rende l’idea di una scultura appesa nello spazio che ha tanti debiti, tra i quali certamente il più importante è individuabile nelle Forme uniche della continuità dello spazio di Umberto Boccioni.
Riportiamo, in sintesi, l’efficace descrizione delle Macchine Inutili pubblicata dallo scrittore Dino Buzzati nel 1948:
Fatto è che questi bastoncini, come animati da un incantesimo, si mettono a vivere da soli, lentamente ruotano, vibrano, si inclinano, si schiudono a raggiera come code di pavone, tremolano come foglie. Basta che uno si schiarisca la voce nell'angolo opposto della stanza, basta il calore di una lampadina accesa, basta il quasi impercettibile filo d'aria penetrato da un interstizio della finestra e loro si mettono in agitazione. In pratica, siccome la quiete assoluta dell'atmosfera non si realizza mai neanche nei locali chiusi, essi sono in perpetuo movimento. [3]
[1] Enrico Crispolti (a cura di), Nuovi Archivi del Futurismo. Cataloghi di esposizioni, De Luca-CNR, Roma, 2012
[2] Giacomo Balla – Fortunato Depero, Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo (1915), in L. De Maria (a cura di), Per conoscere Marinetti e il Futurismo, Mondadori, Milano, 1973
[3] Dino Buzzati, Le Macchine Inutili di Munari, in Pesci Rossi, mensile di attualità letteraria, n. 10-11, ottobre-novembre 1948, anno XVII, pp. 14, 15
Macchina Inutile 1947
Il dinamismo di una forma infinita
ed indefinita
Installazione di Concavo-Convesso all'Estorick Collection of Modern Italian Art, Londra 2012
Fotografia di Pierangelo Parimbelli
Bruno Munari nel 1947 crea un’opera da appendere al soffitto che l'autore chiama Concavo-convesso.
La forma, come indica lo stesso nome, è dinamica ed ambigua, dato che appare sempre differente a seconda del punto di osservazione dello spettatore, e viene ottenuta da una rete metallica quadrata, curvata in modo da fissare gli angoli in alcuni punti prestabiliti della rete stessa. Tali punti di fissaggio possono essere scelti secondo criteri armonici oppure per contrapposizione possono essere determinati con un maggiore grado di libertà, seguendo la forma dell’oggetto mentre si genera nell’atto stesso della curvatura, cioè della messa in piega della rete.
Nel primo caso si ottiene una forma che ci ricorda alcuni oggetti, appartenenti a quella branca della matematica che si chiama topologia, caratterizzati da superfici non orientabili, proprio come accade con la famosa striscia di Möebius in cui non esiste un lato interno ed uno esterno; nel secondo caso si formano delle geometrie più simili a forme naturali apparentate, ad esempio, con le conchiglie o le nuvole. In entrambi i casi c’è sempre un tentativo da parte dell’artista di distorcere una forma geometrica di partenza, in questo caso un quadrato; una distorsione che è attuata attraverso una azione tesa a sperimentare i limiti della materia attraverso un atto che non è mai spinto fino al punto della deformazione irreversibile, ma che, invece, è parte di un processo esplorativo, conoscitivo e di verifica delle proprietà visive del materiale utilizzato.
Questa opera segue lo stesso filo di pensiero che determina la creazione delle Macchine Inutili, ovvero sviluppa la stessa idea di una composizione astratta in movimento nello spazio, la cui forma indefinita è in funzione della dimensione temporale.
Mentre la scultura ha una forma statica, la macchina di Munari, per via della libertà di movimento di ciascuno dei suoi componenti, assume una forma sempre diversa, in funzione dell’istante in cui la si osserva. Ricordiamo che nella prima metà del Novecento si determina una trasformazione cruciale nell'arte italiana riassumibile in alcuni eventi che segnano il passaggio, ampiamente teorizzato dal movimento futurista, dalla terza alla quarta dimensione temporale, per mezzo di ambienti in cui lo spettatore partecipa fisicamente, percettivamente ed emotivamente, in modi più coinvolgenti del passato, alla fruizione stessa dell’opera d'arte.
L’opera in questione, costruita a partire da un prodotto industriale come una semplice rete metallica a maglia fine, ha una trasparenza che viene ampiamente sfruttata attraverso l’uso di illuminazioni puntiformi orientate sull’oggetto, allo scopo di costruire sulle pareti dell’ambiente circostante delle ombre, dei riverberi, dei disegni astratti sempre mutevoli come piccoli cortometraggi.
L’opera, collocata in uno spazio cubico totalmente bianco e appesa in alto, permette di essere vissuta nella sua completezza proprio a partire dalle forme derivate ottenute dalle ombre sui muri, e solo in seconda istanza dall’ osservazione diretta del mobile, collocato preferibilmente sopra la testa degli spettatori.
Si tratta a tutti gli effetti di un ambiente a funzione estetica, di una architettura mobile che lo spettatore può comprendere in pieno solo visitandola; storicamente il Concavo-Convesso è una delle prime installazioni nella storia dell'arte italiana, quasi coevo, benché di poco precedente, all'ambiente nero spaziale che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano.
Per la cronaca, la prima versione di questa opera viene distrutta durante il viaggio di ritorno da una esposizione parigina e rifatta da Munari negli anni seguenti.[1]
Diverse fotografie di Concavo-convesso vengono pubblicate sulla rivista Domus nel numero del dicembre 1947.[2] Successivamente l’opera viene presentata alla Galleria Borromini di Milano nel corso di una mostra personale che si inaugura nella primavera del 1948; pubblicata in catalogo viene descritta con la dicitura "Concavo-Convesso n. 11", a testimonianza della scelta di una realizzazione limitata a poche copie e dunque non ancora prodotta (e teorizzata) secondo i criteri della serialità.[3]
L’opera, come osserva l’artista Getulio Alviani, ha molte componenti che la rendono ancora oggi affascinante:
• forma ambigua e mutevole, che dipende dal punto di osservazione
• forma indefinita, che dipende dalle varie possibilità ammesse per quanto riguarda i punti di fissaggio della rete
• cinetismo
• utilizzo della luce per la creazione delle ombre
• leggerezza e trasparenza del materiale
• programmazione
• imprevedibilità, l’opera è mossa dalla minima corrente d’aria
Per tutte queste caratteristiche il Concavo-Convesso può essere considerato tra le opere più importanti all’interno dell’intero percorso estetico e sperimentale dell’autore.[4]
Infine, occorre sottolineare che contribuiscono alla nascita di quest’opera anche alcune motivazioni teoriche che toccano ambiti complessi come la speculazione filosofica - la forma non ha un inizio ed una fine, cerca di rappresentare l'infinito attraverso la forma finita del quadrato – o la topologia - la forma richiama certe tematiche delle geometrie non euclidee che hanno rivoluzionato il pensiero matematico, e non solo, del Novecento.
Nel caso di una installazione del Concavo-convesso attraverso l’utilizzo di più fonti di luce è possibile ottenere sulle pareti degli effetti di moirè simili a quelli di onde concentriche che si intersecano nell'acqua. A questo proposito è bene ricordare come tale idea verrà sviluppata da Munari nel 1965 con la realizzazione a Tokyo di una Fontana a 5 gocce d'acqua, dove, in puro stile zen, cinque gocce vengono fatte cadere con sequenza casuale in punti prestabiliti dentro uno specchio d’acqua. All’interno di questo bacino vengono collocati microfoni subacquei e fonti luminose rivolte verso l’esterno, allo scopo di proiettare sulle pareti la scena delle rifrazioni prodotte dalle onde.
Come avrete intuito il mondo poetico di Munari fa un uso ripetuto di elementi come casualità, riverberi luminosi, ambienti ed anche suoni cercando, attraverso uno stimolo sensoriale, il coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Tale coinvolgimento è orientato al tentativo – certamente futurista - di avvicinare il pubblico alle forme dei linguaggi visivi della contemporaneità.
[1] Miroslava Hajek, Bruno Munari Futurista, in Miroslava Hajek, Luca Zaffarano, Bruno Munari. My Futurist Past, Silvana Editoriale, Milano, 2012
[2] Concavo e Convesso, in Domus n. 223,224,225, ottobre-dicembre, Milano, 1947
[3] Catalogo "Mostra di Munari 1948", Galleria Borromini Edizioni, Milano, 1948
[4] Getulio Alviani, Concavo-Convesso, in Beppe Finessi (a cura di), su Munari, Editrice Abitare Segesta, Milano, 1999
Il dinamismo di un astrattismo
senza fondo
Due Forme Rosse 1947
Coll. priv.
Nell’aprile del 1934 il pittore russo Wassilj Kandinsky espone per la prima volta in Italia alla galleria del Milione, uno spazio espositivo che in quegli anni diventa punto di aggregazione e di riferimento per gli astrattisti milanesi. La stampa dell’epoca dedica all’evento scarsa importanza. In occasione di quella personale Munari compera un'opera del collega, l'unica venduta.
L’acquisizione di una piccola opera di Kandinsky, che così entra a far parte della collezione personale dell’autore, una collezione che sarà messa a confronto con quella di Lucio Fontana nel 1957 nella seconda mostra della milanese Galleria Blu, denota una scelta probabilmente dettata sia da motivi di studio, sia da motivi di adesione formale ad un certo tipo di ricerca.
Munari, in molte occasioni, nell’analizzare la pittura astratta di Kandinsky non risparmia al collega russo le sue critiche. Ad esempio fa notare che quella di Kandinsky si può definire una pittura verista di forme astratte, adagiate su uno sfondo, in una atmosfera che ricorda ancora quella tradizionale dei dipinti figurativi.
Munari sostiene, infatti, la necessità di superare la funzione tradizionale di fondo che spesso serve, come nel caso specifico di Kandinsky, a mettere in scena nuove forme del mondo reale, osservabili non ad occhio nudo ma attraverso il microscopio. Per Munari l’arte concreta è la realizzazione di un pensiero estetico che si forma nella mente dell’artista e che, dunque, non ha alcuna relazione con astrazioni o stilizzazioni della realtà esterna.
L’opera che prendiamo in considerazione per illustrare queste prime osservazioni si intitola Due Forme Rosse, viene composta nel 1947 e viene scelta per la copertina del catalogo della mostra personale alla galleria Borromini di Milano nel 1948. Tale scelta sottolinea l’importanza non trascurabile che questa opera riveste per la ricerca di Munari.
In essa è evidente il debito dell’artista verso uno dei suoi grandi maestri di riferimento, il pittore scultore Hans Arp, fondatore a Zurigo del Dadaismo. Nelle opere di Arp non c’è alcuna forma di rappresentazione di realtà, nemmeno di quei mondi che sono rimasti per molto tempo ignoti alla scienza solo per mancanza degli strumenti adeguati ad una loro osservazione. Per Arp e per tutti gli esponenti che aderiscono alla corrente artistica nota come arte concreta si tratta invece di inventare nuove realtà, attraverso forme che provengono da un pensiero estetico e non dal mondo esterno.
Nell’opera riprodotta le forme di vario colore (nero, rosso, bianco) non sono appoggiate su un fondo, ma al contrario sono in rapporto instabile con lo sfondo di colore marrone, al punto che l’occhio e la mente ci fanno percepire questa ambiguità mostrandoci profili differenti a seconda del punto in cui si focalizzata la nostra attenzione. Profili marroni sembrano incunearsi nella figura nera e non si capisce più quale sia la forma in primo piano e quella in background.
Osservando con attenzione la composizione si può notare che tutte le forme sono paritarie; allo stesso modo il fondo assume esso stesso, in negativo, una forma ben definita.
Le figure hanno contorni concavi e convessi che ricordano per l’appunto le geometrie del Concavo-convesso di cui abbiamo appena parlato e possono essere "lette" come la rappresentazione visiva, nelle due dimensioni, della stessa ricerca visiva. Questa rappresentazione, che definiamo concreta secondo il criterio indicato in precedenza, risulta essere, durante il processo percettivo di "lettura" dell’opera, ampiamente ambigua e dinamica grazie all’effetto di annullamento dello sfondo.
Il dinamismo di una linea curva concava-convessa
Columbia 1955
Durante gli anni trenta Munari, invece di legarsi ai mercanti d'arte, decide, lavorando presso le principali riviste, di intraprendere la professione, all’epoca ancora non riconosciuta o scarsamente considerata, di graphic designer. Questa scelta è certamente dettata da motivi economici, ma anche dalla volontà di mantenere, attraverso un distacco verso il sistema dell’arte, il massimo della libertà espressiva.
Il suo lavoro nell’ambito della grafica, nel periodo che va dagli esordi fino ai primi anni cinquanta, è copioso e di notevole interesse; un lavoro sviluppato in modo parallelo alle ricerche artistiche, anche se spesso correlato ad esse. Molte sue composizioni compaiono su riviste e pubblicazioni di vario tipo come: Lidel, Cinemalia, Corriere dei Piccoli, Almanacco Letterario Bompiani, L’Ala d’Italia, Tempo, La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia, La Lettura, Natura, L’Ufficio Moderno, Domus.
Munari lavora instancabilmente in ogni campo della comunicazione visiva: nella pubblicità, nell’illustrazione, nell’animazione, nella fotografia, nella grafica editoriale, nella scenografia, nella direzione artistica di riviste, in allestimenti fieristici, nella creazione di un’immagine coordinata, e molto altro ancora.
Nel 1931 fonda con Riccardo Castagnedi (Ricas) uno dei primi studi di grafica presente a Milano: lo Studio R+M. Il sodalizio durerà fino al 1937. Nel periodo dal 1935 al 1939 entrambi collaborano anche con lo Studio Boggeri che inizia la sua attività nel 1933. Munari progetta per lo studio il logotipo, ottenuto da due lettere "B" di diversa dimensione, contrapposte e speculari.
Nonostante l’intensa attività di grafico la vera natura di Munari resta quella di un artista sperimentale, ben calato nella realtà del suo tempo, e come tale disposto ad abbracciare ogni ambito della comunicazione visiva, coniugata secondo le esigenze comunicative di una moderna società industriale.
Nelle realizzazioni grafiche trovano posto, adeguatamente riadattate, molte sperimentazioni provenienti dall’ambito artistico. Vi è, pertanto, un percorso a senso unico che va dall’arte verso la comunicazione visiva di prodotto. Spesso le invenzioni artistiche vengono riproposte in una forma che ben si adatta alle necessità della comunicazione su committenza, come nel caso di copertine di libri, dischi, riviste, manifesti pubblicitari.
L'immagine selezionata ci mostra la copertina di un disco 45 giri di Louis Armstrong, pubblicato per l’etichetta Columbia nel 1955.
In questo lavoro è evidente l’utilizzo dei risultati di alcune ricerche estetiche sull’utilizzo delle forme concavo-convesse.
Ciò che ad una prima lettura appare immediato è il debito verso Hans Arp, sicuramente tra le sue influenze maggiori. In questo, come in altri casi analoghi, Munari ama sperimentare direttamente le soluzioni estetiche inventate dai colleghi. Come ebbe a sottolineare nel 1979 in un’intervista rilasciata ad Arturo Carlo Quintavalle: "Mi sono sempre occupato di grafica e di ricerche visive e quindi la mia attenzione era volta a quelle personalità che conducevano nuove esperienze per migliorare la qualità delle comunicazioni visive. In quel periodo seguivo e sperimentavo le esperienze di Arp, Bill, Schwitters, Cassandre (per gli alfabeti), Erbert Bayer, e gli altri del Bauhaus".[1]
Nella copertina la forma sinuosa concavo-convessa bianca, che contiene i titoli dei brani e degli esecutori, è incastrata nella forma speculare azzurra. La composizione è asimmetrica, imperniata su un cerchio nero posto a destra, disegnato a mano, dove sono riportate le note tecniche. Si tratta di forme organiche, quasi fluide, che si compenetrano; le linee curve, i colori contrastanti, l’assenza del ruolo di un fondo, forniscono alla comunicazione un aspetto piacevolmente dinamico.
[1] Arturo Carlo Quintavalle, Intervista a Bruno Munari, in Catalogo della mostra Bruno Munari, Università di Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Quaderni n. 45, Parma, 28 maggio 1979
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Il dinamismo di una pittura
tascabile immateriale
Diapositiva per proiezione multifocale 1952
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografie di Roberto Marossi
A partire dal 1950 Munari realizza delle proiezioni di composizioni pittoriche costruite con materiali " trasparenti, semitrasparenti e opachi, violentemente colorati o a colori delicatissimi, con materie plastiche tagliate, strappate, bruciate, graffiate, liquefatte, incise, polverizzate; con tessuti animali e vegetali, con fibre artificiali, con soluzioni chimiche e (come dice l'invito alle proiezioni) con la collaborazione del figlio Alberto".[1]
Questi materiali vengono inseriti all’interno di piccoli telai per le diapositive in uso all’epoca. La proiezione luminosa di queste micro composizioni annulla qualsiasi fisicità alle opere restituendo, attraverso proiezioni su larga scala, una dimensione monumentale e decisamente spettacolare.
Munari spiega che con un piccolo vetrino si può affrescare una cupola e che in una tasca si può portare tutta una grande mostra. Parlando delle pitture proiettate egli immagina il loro utilizzo nel contesto della progettazione di una casa moderna: " Si suppone che la casa del futuro avrà un minimo spazio abitabile in rapporto al massimo comfort con la minima fatica di mantenerlo. In questo ambiente già funzionano le musiche incise su nastro, ma per le arti visive non si era ancora fatto nulla (salvo le riproduzioni fotografiche di opere del passato)".[2]
Queste composizioni pittoriche vengono proiettate per la prima volta a Milano nello Studio B24 degli architetti Bobi Brunori, Gigi Radice e Mario Ravignani nell’ottobre del 1953. L’evento è un successo di pubblico e le proiezioni si devono ripetere due volte.
Munari, nell’articolo riguardante le Proiezioni dirette scritto nel 1954 per la rivista Domus, osserva orgogliosamente che l’ingombro di una raccolta di 100 quadri è di soli cm 5 x 5 x 30, pertanto qualunque collezionista può portarsi comodamente la propria pinacoteca in viaggio, proiettare le pitture sulle pareti della camera d’albergo, in dimensioni variabili dai pochi centimetri a qualche metro.
Tra i differenti obiettivi di Munari vi è anche quello di avvicinare la produzione artistica ad una dimensione culturale privata, cercando le modalità per un dialogo tra arte, sperimentazione e pubblico che includa elementi di divertimento, di spettacolarizzazione o di gioco come pre-condizione per il coinvolgimento degli spettatori.
L’affermazione presente nell’articolo: " Il vivere moderno ci ha dato la musica in dischi: ora ci dà la pittura proiettata"[3] mette in risalto come, affinché davvero si possa realizzare un avvicinamento tra arte e vita quotidiana, sia necessario trovare le soluzioni adeguate, anche a problemi di natura tecnologica, affinché la fruizione di un’opera possa avvenire con i mezzi più adeguati ai linguaggi della realtà contemporanea.
Quella di Munari è, inoltre, una posizione anti-elitaria che ci rivela ancora oggi l’attualità del suo pensiero teorico. L’effetto di meraviglia e di gioco è sbalorditivo e le sue proiezioni vengono presentate in molti musei del mondo, tra questi il MoMa di New York nell’ottobre del 1955.
Invece della tela, supporto tradizionale, ritenuto obsoleto, Munari proietta le composizioni attraverso la luce. Grazie a strati di materiale semi-trasparente riesce ad ottenere infinite sfumature di colore.
Scorrendo le date delle tappe del suo lavoro appare evidente come Munari anticipi storicamente le video-installazioni che caratterizzeranno certe forme d’arte dei decenni successivi. Nel 1953 - come abbiamo già detto - presenta in pubblico per la prima volta le proiezioni allo Studio B24, che nel frattempo è diventato una delle sedi espositivi del Movimento Arte Concreta; poi, sempre nello stesso anno, le ripropone nel grande studio di Gio Ponti e associati. Nel 1954 esegue un’altra esposizione nello studio newyorkese di Leo Lionni. Ne parlano le riviste Art d’Auhourd’Hui (giugno 1954) e Interiors (agosto 1954). Dopo altre esposizioni a Milano, Roma (Galleria Nazionale di Arte Moderna) e Firenze, espone le sue slides nell’autunno del 1955 al MoMA di New York in una personale condivisa con il grafico americano Alvin Lustig.
Nel frattempo Munari sviluppa ulteriormente l’idea delle Proiezioni proponendo delle varianti significative. Dapprima realizza dei vetrini in cui la composizione, per scelta e per densità materica, fuoriesce parzialmente dal telaio stesso, obbligando ad una proiezione multi focale. Qui il dinamismo della pittura proiettata è dato dall’assenza di un fuoco definito; infatti, spostando il fuoco da un punto all’altro della composizione tridimensionale, si ottiene una continua variazione della composizione proiettata. In sostanza si realizza un piccolo film dalla durata variabile, dipendente dallo spettatore stesso che può mettere in scena innumerevoli variazioni, accelerando in alcuni momenti, rallentando in altri, ottenendo una variazione della composizione nel continuo.
Nelle due immagini proposte è possibile vedere due momenti di una di queste opere, proveniente dalla collezione della Fondazione Vodoz-Danese di Milano, e notare come la composizione ottenuta per sovrapposizione di materiale colorato fuoriesca dal telaio della diapositiva. Le due immagini accostate illustrano due momenti della stessa composizione ottenuti con variazioni di fuoco.
Nel 1952-1953 Munari realizza una ulteriore e interessante variante, che analizzeremo in dettaglio nella sezione Dipingere con la luce, ruotando un filtro Polaroid davanti alla lampada della proiezione. La lente polarizzata ha una struttura a cristalli microscopici che funge da filtro per tutte quelle frequenze che non attraversano con incidenza perpendicolare il materiale. Pertanto, muovendo il filtro davanti alla lampada del proiettore, si possono ottenere un numero infinito di varianti pittoriche dal processo di scomposizione della luce.
Le proiezioni dirette prima, quelle multifocali poi ed infine quelle polarizzate rappresentano uno dei momenti più alti e storicamente più rilevanti della ricerca estetica di Munari. Mostrano una pittura spettacolare, fatta con le nuove tecnologie, che si diffonde attraverso il proiettore nell’ambiente e che per natura costruttiva è variante in modo continuo. Più che di pitture dovremmo parlare di installazioni di pittura smaterializzata.
" La pittura può anche sparire purché resti l’arte", scrive Munari sull’Almanacco Letterario Bompiani 1961.[4]
[1] B. Munari, Le proiezioni dirette di Bruno Munari, in Domus, n. 291, Milano, 1954
[2] Bruno Munari, Codice Ovvio, Einaudi, Torino, 1971
[3] Questa affermazione venne copiata da Victor Vasarely che la riporta nelle "Note per un Manifesto" scritte in occasione della storica mostra "Le Mouvement" alla Galleria parigina di Denise Renè nel 1955
[4] Achille Perilli, Fabio Mauri (a cura di), Inchiesta: morte della pittura?, in Almanacco Letterario Bompiani 1961, Bompiani, Milano, 1960
Un dinamismo a colori variabili ad un’ora X
Ora X 1963
Courtesy Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi
Nel 1945 Bruno Munari progetta in esemplare unico un oggetto cinetico - l’Ora X - applicando 3 semidischi colorati e trasparenti alle lancette di una sveglia. Sono tutti a tinta piatta: arancio, giallo e blu. Sullo sfondo bianco è presente anche un semicerchio fisso di colore nero. Tutti i semidischi colorati sono di diametro differente e proporzionalmente decrescente; muovendosi con velocità distinte creano, grazie alla loro sovrapposizione, forme colorate sempre mutevoli.
Potremmo dire che all’ora X non si sa bene quale sia il colore finale che si può ottenere.
In un taccuino di appunti databile anni ’30-’40, presente nella collezione della Fondazione Vodoz-Danese di Milano, vi è un disegno in cui il set di colori varia, a dimostrazione che Munari prende in considerazione differenti varianti cromatiche, alcune mai realizzate.[1]
Nel 1963 l’Ora X diventa, a seguito di un lavoro di riduzione all’essenziale, un oggetto a funzione estetica prodotto, in 50 esemplari, dall’azienda milanese di Bruno Danese. La sveglia viene sostituita da un orologio di diametro di 20 centimetri con cassa in alluminio anodizzato, le lancette diventano la sede dove inserire le parti trasparenti e quasi spariscono, restano solo i dischi in movimento, lo sfondo da bianco diventa avorio.
Qualcuno potrà dire che si tratta di un oggetto di design industriale o che si tratta di design di ricerca. Ma sono solo definizioni, categorie. Le posizioni teoriche, che Munari condivide con altri artisti, accettano una produzione in serie di un oggetto a funzione estetica a partire da un progetto, ma non ammettono la riproduzione in serie di un’opera d’arte unica, perché sarebbe di fatto una truffa ai danni degli appassionati d’arte e dei collezionisti.
Tale atteggiamento progettuale, che guarda caso ha molti legami con le tecniche dell’industrial design, costituisce una prima soluzione all’esigenza di portare una ventata di democrazia e di accessibilità all’interno del sistema elitario dell’arte. Ciò può avvenire grazie alla produzione industriale, all’abbattimento dei costi e dei prezzi di mercato. E’ anche un tentativo di demitizzare l’artista-star, cercando di avvicinare il mondo dell’arte e della creazione estetica al singolo fruitore e alla sua vita quotidiana.
Ma torniamo all’opera: che cos’è questa Ora X?
I quattro semidischi muovendosi producono una combinazione dinamica e mutevole di colori ottenuti per sovrapposizione di materiale plastico colorato, trasparente.[2]
E’ una forma instabile ottenuta per composizione e scomposizione di colori. L’instabilità è un concetto presente con forza in molte opere di arte cinetica realizzata negli anni ’60: essa diventa metafora dell’insicurezza o del senso di precarietà all’interno di un mondo governato da leggi complesse, stimola un atteggiamento culturalmente adattivo nei confronti di un mondo la cui forma muta in continuazione.
L’Ora X è ironica e mette in moto l’occhio, e il cervello.
E’ la scomposizione del tempo in colori.
E’ un gioco, è arte.
Per dirla con le parole di Munari stesso
è il colore degli attimi
è la macchina delle eclissi
è l’ora del relax
è l’ora X [3]
[1] L’intero taccuino è riprodotto in: Miroslava Hajek, Luca Zaffarano, Bruno Munari. My Futurist Past, Silvana Ed., Milano, 2012
[2] L’uso di materiale plastico colorato verrà usato sia nella costruzione di Macchine Inutili dalla fine degli anni ’40 o anche con la creazione di texture complesse mediante la sovrapposizione di fogli serigrafati trasparenti (cartella Los Alamos, 1958)
[3] Bruno Munari, Codice Ovvio, Einaudi, Torino, 1971
Il dinamismo di una colonna di
sfere
Nove sfere in colonna 1962
Coll. priv.
Nel 1962 Bruno Munari organizza a Milano nel negozio Olivetti appena ristrutturato, in galleria Vittorio Emanuele, la mostra "Arte Programmata"; una mostra sponsorizzata dalla storica azienda italiana allora produttrice delle prime macchine calcolatrici. L’esposizione vede la partecipazione di due gruppi artistici, il gruppo T di Milano ed il gruppo N di Padova, oltre a singole personalità come Enzo Mari e Munari stesso.
Il nome di "Arte Programmata" viene scelto ed inventato da Munari e viene usato per la prima volta nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962, la cui uscita è, come da abitudine, del dicembre 1961 e la cui copertina viene progettata graficamente dallo stesso Munari.[1]
Per programmazione si intende, per derivazione dalle nascenti discipline della computer science o della cibernetica come allora si definiva, un metodo di creazione artistica quasi algoritmico, in grado di definire infinite varianti dello stesso tema.
La mostra cerca di ridefinire il ruolo dell’artista nella società moderna e ipertecnologica, sottolineando il carattere di protagonista e di utilizzatore consapevole delle nuove tecnologie e dei nuovi materiali.
Milano è la capitale del miracolo economico italiano degli anni sessanta, un decennio in cui il prodotto interno lordo cresce ad un ritmo tra il 6% e l’8% annuo. E’ la capitale dell’industrial design, del graphic design, della pubblicità, dell’incontro tra arte e industria, già teorizzato negli anni cinquanta dalla corrente artistica del Movimento Arte Concreta con lo slogan sintesi delle arti e dalla figura indipendente di Mario Ballocco che pubblica la rivista "AZ", un crocevia di pensieri e riflessioni sull’arte come mestiere.
La mostra, dopo aver toccato diverse città italiane ed alcune europee, allargandosi ad altri artisti e gruppi, approda infine negli Stati Uniti, sponsorizzata dalla Olivetti e veicolata dalla prestigiosa Smithsonian Institution.
L’opera che Munari presenta in questa mostra è costituita da nove sfere in plexiglass trasparente, all’interno di ciascuna un paio di bande rettangolari bianche incrociate fungono da segni grafici. Tutte le sfere sono tenute in colonna da una struttura verticale composta da tre cristalli. Il diametro della sfera è alla base di ogni altra misura dell’intera opera.
Nella base è nascosto un motore elettrico che muove lentamente una puleggia la quale, a sua volta, mette in movimento la prima sfera alla base. A questo punto per attrito tutte le sfere della colonna si mettono in movimento, cambiando in continuazione la posizione dei segni bianchi di ciascuna sfera. Il movimento sfrutta la forza fisica dell’attrito ed è casuale, mai ripetitivo.
Nel film che documenta l’esposizione, realizzato negli Studi di Cinema Sperimentale di Monteolimpino (Como) per conto della Olivetti, c’è una scena di un minuto circa in cui una bambina seduta ai piedi dell’opera osserva con curiosità il movimento delle sfere.
La telecamera si sposta poi sulle ombre disegnate sul muro. La trasparenza delle sfere illuminate e i segni dentro le sfere in movimento producono un effetto complessivo simile a quello di un film astratto, sempre diverso.
[1] Marco Meneguzzo, Enrico Morteo, Alberto Saibene (a cura di ), Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche, Johan & Levi Editore, 2012
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Il dinamismo di un tetracono
Tetracono 1965
Fondazione Jacqueline Vodoz Bruno Danese, Milano
Fotografia di Roberto Marossi
Il Tetracono, composto da quattro coni, è un oggetto cinetico di arte programmata che ha come illustre antenato il simbolo cinese dello Ying e dello Yang, un simbolo che rappresenta l'equilibrio vitale tra forze contrapposte che si scontrano e si bilanciano. Analogamente il Tetracono ha stretti riferimenti con la natura, in cui nulla è fermo e tutto si modifica.
L’arte del passato, ci dice Munari, ha cercato di descrivere una natura fissata in un certo istante. Ma in natura esistono i cicli, le stagioni, le trasformazioni di forme e colori; allo stesso modo l’arte programmata vuole farci vedere le forme mentre si determinano, spostando l’attenzione dello spettatore verso il processo di trasformazione dinamica, instabile e complessa, ricorrendo all’uso di elementi tecnologici come motori elettrici, elementi industriali o l’uso di forze fisiche.
L’opera è composta da 4 coni, ciascuno colorato per metà di rosso e per metà di verde, che sono - come è noto - colori complementari. L’osservazione di due colori complementari tra loro a contatto genera una sensazione, puramente cromatica, che tende ad annullare la percezione della materia che "trasporta" il colore.
Ciascun cono ha al proprio interno, ben occultato, un motore elettrico che lo fa ruotare lentamente. La distribuzione delle velocità, ovvero la durata di un intero giro per cono è rispettivamente di 60 , 72, 90, 108 secondi. Per 18 minuti si hanno variazioni continue.
Esiste anche una versione senza motore in cui il movimento dei coni è lasciato alla interazione con lo spettatore. Questa idea di rotazione manuale ritornerà negli anni novanta con la creazione di parallelepipedi colorati denominati Rotori, in grado di girare liberamente su di un perno di fissaggio. Il movimento impresso dallo spettatore ricorda vagamente la consuetudine buddista di muovere con la mano le ruote delle preghiere all’ingresso dei templi.
Il Tetracono viene presentato per la prima volta nel 1964 alla New York University nella mostra "Arte Programmata", sponsorizzata dalla Olivetti e dalla Smithsonian Institution, poi nel 1965 nello showroom di Danese a Milano. Viene prodotto in 50 esemplari.
Successivamente viene esposto nella mostra "Perpetuum Mobile", alla Galleria dell’Obelisco di Roma nel 1965, alla Howard Wise Gallery di New York nel 1966, allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1966-67, alla Galleria Sincron di Brescia nel 1968 dove l’artista firma il "Manifesto dei Multipli", pubblicato in "Codice Ovvio",[1] ed infine nella mostra "Multiples. The First Decade" al Philadelphia Museum of Art nel 1971.
[1] Bruno Munari, Codice Ovvio, Einaudi, Torino, 1971
Dinamismo flessibile
Flexy 1968
Depliant allegato all'opera
Fotografie di Ugo Mulas
Courtesy Eredi Ugo Mulas
Munari nel suo libro "Arte come mestiere" del 1966 osserva che per poter produrre un oggetto a funzione estetica, cercando di rivolgersi ad un pubblico ampio e producendo a basso costo, l’artista deve essere in grado di "risolvere problemi di progettazione e di produzione".[1]
Ma nel caso di una produzione seriale possiamo ancora parlare di oggetti d’arte o piuttosto di oggetti di design, ancorché sperimentale?
Le Macchine Inutili, il Concavo-Convesso o l’Ora X non hanno funzioni pratiche, ma assolvono esclusivamente funzioni estetiche, anche se prodotti con gli stessi procedimenti tramite i quali una industria progetta o produce un macchinario, un lampadario o un orologio. L’arte diventa seriale in tiratura limitata o anche illimitata, in base alle esigenze della comunicazione e Munari risolve, spesso in modo magistrale, i complessi problemi legati alla produzione, al montaggio, al trasporto e allo stoccaggio.
Sulla rivista milanese "AZ", diretta da Mario Ballocco, Munari firma nel maggio del 1950 un articolo dal titolo "Arte e Industria" [2] il cui incipit è il seguente: "La vera funzione sociale dell'arte dovrebbe essere quella di migliorare non solo l'animo umano ma anche l'ambiente dove l'uomo vive."
Nell’articolo Munari teorizza la necessità dell’artista di intervenire concretamente nella vita quotidiana: "L'incomprensione tra pubblico e artisti è determinata dal fatto che il pubblico vive in un mondo e l'artista in un altro. Il pubblico passa per strade grigie e monotone, viaggia su brutti veicoli, i suoi occhi si posano continuamente su una maggioranza di pubblicità volgare dai colori stonati". Infine, con un certo anticipo storico, teorizza quanto oggi è sotto gli occhi di tutti attraverso casi esemplari di successo industriale: "Perché non portiamo un poco della nostra sensibilità artistica all'industria e ai suoi prodotti? Credete che un apparecchio telefonico non possa essere anche bello oltre che pratico?"
Il suo modo di procedere in parallelo su molti fronti (arte, visual design, industrial design, design di ricerca, teoria del design) è stato definito leonardesco da fonti autorevoli,[3] ma ha anche generato molti equivoci critici.
Il distacco che Munari attua in modo costante da ogni corrente o movimento, compreso quello futurista a cui aderisce nella stagione giovanile, lo porta ad assumere una posizione che non è mai ideologica o programmatica.
Questo presa di distanza dalle mode porta Munari, nel biennio 1968-69, mentre la società italiana è in grande fermento, ad essere protagonista di due importanti operazioni: la creazione di un oggetto flessibile a funzione estetica in tiratura illimitata che porta l’elegante nome di "Flexy", e la performance "Far vedere l’aria" nel contesto della mostra collettiva organizzata a Como ed intitolata "Campo Urbano".
Nel primo caso si tratta di una presa di posizione concreta (per mezzo di una tiratura illimitata di un’opera d’arte) contro un mercato dell’arte che si sta trasformando velocemente in un mercato di beni finanziari; nel secondo caso si tratta di una posizione di voluto disinteresse, in piena era della contestazione, per le posizioni più politicizzate che anche nell’arte, come nella società in radicale trasformazione, tendono ad affermarsi.
Flexy è un’opera d’arte deformabile composta da sei fili di acciaio inossidabile di un metro di lunghezza ciascuno che assumono la forma di partenza di un tetraedro "molle" a linee curve manipolabile. L’oggetto è distribuito in una scatola di cartone di 1 cm circa di spessore che funge, avendo dei fori sulla facciata, anche come basamento per l’oggetto stesso. Flexy è dotato di ventose per poterlo fissare sui piani lisci ed ha quattro piccoli anelli di gomma che possono scorrere sui fili di acciaio in modo da poter variare la forma della struttura. Prodotto dalla azienda Danese di Milano rimane a lungo in vendita.
Flexy può essere appeso, fissato alle pareti, esposto su ripiani trasparenti o retro-illuminati, può essere utilizzato da un pubblico di tutte le età, è un oggetto che serve a sperimentare le forme, è topologicamente interessante.
In quanto elastico spesso si ribella alle forme troppo costrittive, è un’opera d’arte a tiratura illimitata prodotta con i metodi dell’industrial design e può essere ragionevolmente considerata un’opera rappresentativa di tante intenzioni teoriche, un’opera che sta all’incrocio di molte discipline: topologia, progettazione industriale, estetica, didattica, sperimentazione, gioco, arte.
Flexy ha una forma dinamica, manipolabile, non ha un alto o un basso, non ha un davanti o un dietro, una destra o una sinistra.
La sua topologia può essere a due dimensioni, a tre, anche a quattro.
Questo modulo flessibile ha nel matematico Gerolamo Cardano un suo lontano parente, pesa solo 40 grammi, "Flexy è silenziosa / Flexy sta al gioco". [4]
[1] B. Munari, Arte come mestiere, Laterza, Bari, 1966
[2] B. Munari, Arte e Industria, in AZ arte d’oggi, anno II n.4, Milano, aprile-maggio 1950, p.3
[3] P. Hulten, Una magia più forte della morte, Bompiani, Milano, 1987
[4] Bruno Munari, Codice Ovvio, Einaudi, Torino, 1971
Il dinamismo di una immagine in movimento nell’atto della sua riproduzione
Xerografia originale 1980
Coll. priv.
Munari è uno dei primi artisti ad utilizzare per scopi creativi le macchine fotocopiatrici, inventate dall’avvocato newyorkese Chester Carlson e commercializzate dalla Rank Xerox a partire dagli anni '50.
Le prime realizzazioni artistiche sono datate 1963,[1] la prima esposizione pubblica avviene a Tokyo nel 1965,[2] la prima segnalazione sulla stampa è del 1968.[3]
L’idea di Munari è semplice e consiste, durante il tempo della scansione, nel mettere in movimento delle immagini, dei pattern o delle texture.
Si ottengono in questo modo immagini deformate dal movimento, rese uniche da un atto creativo e non ripetibile. Le xerografie ottenute sono pertanto originali e grazie ad una dettagliata sperimentazione dei materiali e della tecnica l’autore è in grado di creare in pochi secondi delle opere d’arte, disegnando per superfici invece che per linee.
Le Xerografie originali per Munari rappresentano qualcosa di simile ai rayogrammi inventati nel 1921 dall’artista americano Man Ray.
Nel caso delle opere dell’artista americano il procedimento consiste nell’appoggiare degli oggetti sulla carta sensibile al buio e poi fare in modo che sulla carta resti impressionata una immagine riflessa ottenuta accendendo per un attimo la luce. In questo modo si hanno fotografie senza l’uso di una macchina fotografica, stampando le ombre degli oggetti, più o meno trasparenti, direttamente sulla carta.
Nel caso delle Xerografie, invece, la luce si muove sotto il vetro di esposizione in modo che sulla carta venga fissato, tramite il toner, non solo la forma degli oggetti esposti, ma anche il loro movimento, creando in questo modo una immagine nuova, dinamica, distorta, il cui unico scopo è quello della comunicazione con finalità estetiche.
La ricerca per Munari non deve assumere ex ante finalità artistiche. "Lo scopo della sperimentazione è quello di ottenere il massimo dei dati, proprio per un eventuale uso".[4]
L’indagine prevede l’analisi e lo studio del processo di produzione di una immagine, l’uso dei diversi modelli di fotocopiatrice, lo studio dei limiti di lettura della macchina, della calibrazione del toner, dei materiali da utilizzare per ottenere i diversi effetti di texture, come fogli forati, retini, materie organiche, materie plastiche, colorate, carte di vario spessore.
Per fare una buona fotocopia bisogna tenere ferma l’immagine durante il processo di lettura. Munari si chiede: "Cosa succede se io muovo questo originale sulla lastra di vetro?".
Ecco che Munari prova molti tipi di movimenti: seguendo il movimento della luce, a scatti nella stessa direzione, in diagonale, perpendicolare, ondulatorio, con rotazione, con slittamenti laterali e via discorrendo. Naturalmente il movimento, per essere letto e produrre segni sulla carta, deve avvenire nel campo di luce della sorgente luminosa.
Ogni tipo di materia, ogni tipo di movimento, produce effetti e possibilità che una sperimentazione sistematica di catalogazione e classificazione consente di usare per scopi estetici.
La creatività artistica entra in gioco solo al termine del processo di conoscenza delle possibilità offerte dal mezzo tecnico, affinché ogni risultato ottenuto possa essere usato al meglio all’interno della comunicazione.
Ecco ad esempio che l’autore riproduce in modo dinamico un motociclista - un’icona futurista classica - fornendo all’immagine quel movimento che la fotografia non riesce ad esprimere in pieno.
L’uso di pattern a righe nere consente di creare immagini astratte affascinanti.
La riproduzione contemporanea di più fotografie consente una trasformazione per certi versi simili al fotomontaggio.
L’utilizzo del colore amplifica le possibilità del mezzo.
Disegnare per superfici.
Disegnare il movimento.
Disegnare con la luce.
Questo processo di analisi viene documentato in una pubblicazione edita a cura della Ranx Xerox nel volume "Bruno Munari Xerografia. Documentazione sull’uso creativo delle macchine Rank Xerox", presentata in occasione della Biennale di Venezia del 1970.
Nel 1979 Munari partecipa alla mostra collettiva "Electroworks" dedicata all’arte creata con i mezzi della fotocopia. L’esposizione si inaugura alla George Eastman House, International Museum of Photography di Rochester, New York, uno dei musei di fotografia più vecchi al mondo, situato nella dimora del fondatore della Eastman Kodak. La mostra tocca successivamente le principali città degli Stati Uniti.
Lo spirito della fotografia, aggiornata con le possibilità dei nuovi mezzi tecnologici, rivive nelle nuove realizzazioni artistiche di Munari.
Nell’operazione creativa che l’artista documenta con la pubblicazione di tre libri,[5] ritorna il tema, così caro ai futuristi, della macchina.
Ciò che appare fin da subito in modo esplicito è l’insegnamento a non essere soggiogati dalla tecnologia e dalle procedure operative, ma piuttosto a cercare di piegare la macchina alle nostre esigenze, anche quelle più creative.
Così come nel judo la forza dell’avversario viene usata contro l’avversario stesso - dimostrando che in battaglia l’uso intelligente delle forze in gioco è più vantaggioso dell’impiego della mera forza bruta - allo stesso modo in questa operazione artistica si utilizza il punto di forza del mezzo tecnologico contro di esso, applicando una specie di judo, un ribaltamento dell’approccio alla tecnologia che scardina ogni nostra fissità funzionale.
Munari riesce, pertanto, nell’intento di costringere la fotocopiatrice a fare l’esatto opposto di quello per cui è stata inventata.
Immagini originali al posto di copie.
[1] Gloria Bianchino (a cura di), Bruno Munari. Il Disegno, il Design,Corraini Editore, 2008
[2] Bruno Munari, Xerografia. Documentazione sull’uso creativo delle macchine Rank Xerox, Rank Xerox, Milano, edizione fuori commercio, 1970
[3] Le Xerografie Originali di Bruno Munari, in Domus, n. 459 febbraio 1968, Milano, 1968
[4] Bruno Munari, Xerografie Originali, Zanichelli, Bologna, 1977
[5] Bruno Munari, Xerografia, Xerox, Milano, 1970; Bruno Munari (a cura di), Arte e Xerografia, Xerox, Milano, 1972; Bruno Munari, Xerografie Originali, Zanichelli, Milano, 1977
Testi: Luca Zaffarano, 2015 - 2016
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